Dino Buzzati, quando arrivò ad Ortona a caccia di misteri

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MITI E LEGGENDE

Dino Buzzati e Ortona, la storia del bambino feticcio

Dino Buzzati

Dino Buzzati

L’Abruzzo è una terra permeata da miti e leggende, fino a scadere spesso nella superstizione; oggi rievochiamo la storia del bambino feticcio, resa famosa dal grande Dino Buzzati.

Tra arte, giornalismo e letteratura, identikit di Dino Buzzati

Dino Buzzati fu uno dei grandi personaggi del novecento italiano. Scrittore e giornalista, certo, ma non solo. Fu anche pittore visionario e di gran talento, oltre che drammaturgo, librettista, scenografo e poeta. Entrò al Corriere della sera nel 1928 e vi scrisse praticamente per tutta la vita. Fu il maggiore scrittore fantastico italiano, assieme a Italo Calvino, e scrisse numerosi romanzi e raccolte. Barnabo delle montagne, Il segreto del bosco vecchio e soprattutto Il deserto dei Tartari furono i romanzi più celebri, che gli valsero l’epiteto di Kafka italiano. Da tutti e tre sono stati tratti ottimi film.

Inviato alla ricerca dei misteri d’Italia

Negli anni sessanta il Corriere della sera gli affidò il compito di girare l’Italia alla ricerca di storie fantastiche che affondavano le radici nella tradizione. Dino Buzzati raccontò queste vicende col suo tocco visionario e dissacrante, smascherando l’ipocrisia e le superstizioni ancora ben vive nel dopoguerra. Gli articoli avrebbero dato vita a una raccolta postuma, Misteri d’Italia, uscita nel 1978, sei anni dopo la morte dello scrittore. Fu quindi per questo motivo che, un pomeriggio dell’agosto del 1965, Dino Buzzati arrivò ad Ortona, accolto da Alberto Melisana e Franco Manocchia. Il primo era il corrispondente del Corriere per l’Abruzzo, l’altro il direttore della Gazzetta di Pescara. Buzzati aveva saputo la storia del bambino feticcio ed era arrivato alla sua ricerca.

La sordida vicenda del bambino feticcio

Antica bambola feticcio

Antica bambola feticcio

Dopo una breve ricerca in paese, i tre appurarono che Nicolino, il bimbo protagonista della storia, ora trentatreenne, era impiegato presso il Comune. Dino Buzzati nel suo articolo lo chiamerà Giovannino Lucci, per motivi di privacy. Trovata l’abitazione, si fecero raccontare la sordida storia direttamente dall’uomo. Buzzati è bravissimo, col suo stile, a rendere la reticenza dell’uomo, e allo stesso tempo la voglia di sgravarsi della vicenda che lo aveva visto, suo malgrado, protagonista. Con fare gentile e amabile, Giovannino confida a Buzzati la sua storia.

Il bimbo, il calzolaio e la strega

La stregoneria secondo Goya

La stregoneria secondo Goya

Nato in piena epoca fascista in una famiglia che aveva conosciuto solo la miseria, il Lucci era stato abbandonato dai genitori. Il padre faceva dentro e fuori dal penitenziario per piccoli reati, mentre la madre pare fosse una prostituta. Venne così affidato alla nonna Marietta, cinquant’anni ben portati e dalla sinistra fama di strega. Magara, come si dice qui. La sorella della mamma, ad appena tredici anni era stata data in sposa al calzolaio Cecco Mengoni. E qui la vicenda inizia la sua discesa agli inferi, o meglio, nello squallore. Mengoni e Marietta si conoscono e, del tutto inaspettatamente, scocca la scintilla, nonostante “la strega” abbia il doppio degli anni.

Come in un film horror

Ma la malasorte è in agguato. Il Mengoni si ammala di tubercolosi, pare incurabile, e la nonna Marietta, pazza d’amore, decide di dar fondo alle sue arti di strega e operare la cosiddetta “fattura di trasferimento”. Siamo nel 1936 e la superstizione di allora riteneva possibile, attraverso una delicata stregoneria, trasferire una malattia da una persona all’altra. Marietta non si fa scrupoli e decide di sacrificare il nipote per il suo amore. Inizia a farne un feticcio, riempiendolo di aghi imbevuti della saliva dello zio malato, come i bambolotti del voodoo nei film horror. E non solo aghi, chiodini, spilli, forcine acuminate, tutto può servire al suo sordido scopo. Il bambino urla e piange in continuazione, tanto da attirare la curiosità dei vicini. Questi, approfittando di un momento di distrazione, lo portano in ospedale.

Il processo e il riscatto del bambino feticcio

È una radiografia a svelare l’orrore. “Questo non è un bambino, è un puntaspilli!” afferma il medico. Nessuno si spiega il fatto, fino a quando di fronte all’ago di una siringa, il bimbo piange e prega: “No, nonna, basta!” Smascherati, la nonna e l’amante vengono processati all’Aquila nel 1939 e condannati a trent’anni. La strega morirà in carcere, mentre il Mengoni sarà qualche anno dopo graziato, anche in virtù del perdono di Giovannino, il quale gli troverà perfino lavoro in comune. I due continueranno a mantenere buoni rapporti. Il bambino cresce e riesce a rifarsi una vita e una famiglia, anche se ad Ortona tutti si ricordano dell’oscura storia, anche se nessuno ne parla.

La conclusione di Buzzati

La conclusione di Dino Buzzati è emblematica di una certa cultura dell’epoca, forse ancora non del tutto sradicata. Il giornalista chiede a Giovannino se parli della vicenda con lo zio quando si incontrano e vanno al bar assieme: “E di che cosa parlate? Di quella faccenda là?”
“Ah, no. Di quella faccenda neanche una parola. Mai.”

Dino Buzzati e Ortona, la storia del bambino feticcio ultima modifica: 2018-11-16T10:30:18+01:00 da Andrea La Rovere

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